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Editoriale – Agosto 2019

di Paola Ficco, “Avvocato - Giurista ambientale e Direttore della Rivista RIFIUTI

Data 27/09/2019
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Rivista Rifiuti n°272

Se dopo oltre venti anni di gestione improntata alla disciplina del recupero e del riciclo, l’Italia è in una continua emergenza rifiuti, significa semplicemente che non siamo capaci. Bisogna avere il coraggio di dirlo e fare un collettivo “mea culpa”. Perché non è possibile che un paese tecnologicamente avanzato dove ancora (per poco) si sviluppano intelligenze e capacità, per gestire i propri rifiuti ricorra all’incendio e all’esportazione. Evidentemente c’è (più di) qualcosa che non funziona. A ogni livello amministrativo, politico e gestionale. Un paese non vive dell’opera di uno ma di quella di tutti. Dovremmo smettere di dire “è colpa tua” e cominciare a dire “è colpa mia”.

L’Italia, come è ormai evidente, non è capace di gestire i propri rifiuti. Il rogo è il sintomo e la spia di un malessere profondo. L’incendio va spento non solo con gli idranti ma con una consapevolezza nuova che guarisca una malattia gravissima: il sospetto. Il sospetto non ha bisogno di prove, ma solo di sensazioni; non chiede ragionamenti, ma solo una cognizione di sfiducia.

La raccolta differenziata viene spacciata come la panacea di tutti i mali ma è solo fumo negli occhi perché riguarda circa 30 milioni di tonnellate di rifiuti urbani e assimilati. Un niente. Ma di questo niente parlano tutti, stracciandosi le vesti se la plastica va nel cassonetto della carta. Salvo mandare tutto a recupero energetico all’estero (o a fuoco in Italia) perché gli impianti di riciclo sono pochi. Saranno sempre di meno perché hanno vita troppo difficile, stretti fra l’incudine dell’isteria dei vari comitati locali, l’incapacità di dirimere i conflitti da parte della P.a. e norme nazionali e locali stratificate e, ormai, indecrittabili.

Tutti, invece, tacciono, imbarazzati delle oltre 135 milioni di tonnellate di rifiuti speciali (di cui 9,6 milioni pericolosi) ma da più parti si agita solo l’inasprimento delle sanzioni. Non succederà nulla, se non disordine. L’argine è solo una intelligenza collettiva la quale capisca che viviamo in quella che U. Beck chiama la società del rischio contrapponendola a quella della scarsità. Quindi, quello che viene redistribuito non è la risorsa ma, appunto, il rischio. Un rischio che è difficile riconoscere e che è sistemico (perché è un “effetto indesiderato” delle tecniche di produzione moderne). Questo rischio va gestito. E i rifiuti sono un fondamentale banco di prova. Occorrono impianti, norme lucide, P.a. coraggiose e controllori intelligenti. Diversamente, un malaffare che già di per sé non manca, diventerà sempre più presente.

Per dirla con F. Stella (“Giustizia e modernità. La protezione dell’innocente e la tutela delle vittime”) la “società del rischio” deve fronteggiare e risolvere i grandi pericoli scientifici e tecnologici che costituiscono il potenziale di autodistruzione dell’umanità. I problemi della modernità che gli Ordinamenti mondiali fanno fatica a risolvere sono: progresso scientifico-tecnologico; sviluppo economico senza controlli e regole; crisi del rapporto libertà/sicurezza.

I nuovi rischi scontano una profonda incertezza scientifica (l’incertezza, del resto, è connaturata al procedere della scienza), ma è con questa incertezza che occorre confrontarsi. Ne deriva un clima ambivalente:

– di negativo sospetto per le conseguenze della tecnologia sui beni fondamentali (es. salute e ambiente)

– di positiva attesa per le cose positive che il progresso tecnologico può apportare.

Questa ambivalenza ha posto le basi ideologiche del principio di precauzione che non si basa sulla disponibilità di dati che provino la presenza di un rischio, ma sull’assenza di dati che assicurino il contrario.

Il che, ovviamente, genera il problema di identificare con chiarezza la quantità di dati necessaria a dimostrare l’assenza di rischio, soprattutto alla luce dell’impossibilità della scienza di dare certezze ultimative e definitive.

I rifiuti sono i figli legittimi di questo disorientamento. Un fenomeno globale che, però, solo in Italia paralizza e spaventa.

È in questo mistero della realtà che occorre tornare ad abitare le parole.

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