Rivista Rifiuti n° 269
Avere a che fare con i rifiuti significa accorgersi che ogni rifiuto ha la sua personalità. Un cartone è molto diverso da una schiumatura. Il primo è intelligente, la seconda è un po’ losca e non ci pensa troppo a nascondersi, magari confondendosi con una cenere vagabonda. Gli scarti di tessuti vegetali sono miti e i metalli sono contemplativi.
Potrei continuare a lungo. Ma il punto è che tutto è molto personale, come se ogni rifiuto avesse un’anima e la sua gestione rispondesse più al sentire di chi vi entra in contatto, soprattutto a livello di decisione politica e amministrativa, che alla vera natura della materia o della sostanza.
Un’empatia soggettiva che avvolge e distoglie dai problemi reali: insufficienza di impianti, regole complesse, cecità locali, rapporto fideistico con la raccolta differenziata. A tacer d’altro.
Il diritto è regolazione del sociale e si concreta in atti normativi. L’economia studia l’uso delle risorse (scambio, crescita e distribuzione) e mira a definire le leggi per ottimizzarne l’uso.
Il percorso sincrono di diritto ed economia favorisce la consapevolezza dei diversi strumenti che questi offrono per rispondere ai bisogni della società per una risposta ottimale alle necessità emergenti.
Per i rifiuti non è così. La definizione di rifiuto è quella olistica che risale al 1975 (direttiva 75/442) mentre l’economia circolare parla di risorse e risale al 2015 (Piano d’azione avviato dalla Ue).
La nuova direttiva (2018/851/Ue), conservando la obsoleta definizione di “rifiuto”, ha perso un’occasione storica per fare ordine; così diritto ed economia continuano a non parlare tra di loro.
Il Parlamento non è ancora riuscito a varare una norma che sblocchi lo stallo nel quale (pretestuosamente) l’End of Waste è precipitato dopo la sentenza del Consiglio di Stato del 28 febbraio 2018: un genio guastatore.
L’economia circolare sembra un passatempo. Una specie di pretesto, come quando si parla di quello che si vorrebbe fare se si vincesse la lotteria. Così ci si ritrova in circoli e convegni, si rivedono vecchi amici e si inventano storie su come si vivrebbe se, all’improvviso, fosse varata una norma che rendesse possibile autorizzare di nuovo l’End of Waste.
Un gioco innocuo che rende tutti felici. Una specie di terapia di gruppo dove ci si immagina un’altra vita e il cuore continua a battere. In attesa di cosa? Del recepimento della direttiva? Delle elezioni? Del prossimo decreto su uno dei milioni di materiali che affollano la nostra vita produttiva e di consumo? Una corsa verso i confini del nulla.
Un paradosso, dove il diritto è la causa della libertà economica ma ogni volta che lo si usa per conquistare una parte di quella libertà, ci si priva di una identica porzione. Una distonia di ordine e di tempo.
È come se il sistema si misurasse tra prove di volontà e insidiosi sensi di colpa, creando così un nucleo narrativo beffardo che manifesta tutto il conflitto sociale dovuto alla distribuzione delle risorse scarse, dove l’End of Waste si inserisce a pieno titolo. Dove occorre scegliere tra diversi valori che si affermano in modo assoluto (cioè non ammettono compromessi) ma, per farlo, occorre una metodologia delle decisioni; mentre la (presunta) mancanza del potere regionale per l’End of Waste “caso per caso” è la scusa per non decidere. Mai.
Come in tutti i fondamentalismi, anche in quello che potremmo definire “fondamentalismo amministrativo” c’è una potenza di attrazione: le Regioni sono sedotte dalla sentenza del Consiglio di Stato perché si sentono liberate dalla libertà, dal tormento di dover scegliere rischiando. Un tribunale ha privato di autorità l’Autorità. E così, la cosa più difficile di tutte resta sempre cogliere l’invisibile misura della saggezza, la quale reca in sé i limiti di tutte le cose (Solone).
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