“Quando penso che un uomo solo, ridotto alle proprie semplici risorse fisiche e morali, è bastato a far uscire dal deserto quel paese di Canaan, trovo che, malgrado tutto, la condizione umana sia ammirevole.”
Così si chiude il libro L’uomo che piantava gli alberi nel quale lo scrittore francese Jean Giono racconta la storia di Elzéard Bouffier, pastore che da solo riforestò un’intera vallata alpina durante la prima metà del Novecento. La storia è inventata ma più volte, negli ultimi anni, casi reali hanno reso indirettamente omaggio a Monsieur Bouffier.
Non sappiamo, per esempio, se John D. Liu abbia letto il libro, ma sicuramente la storia di questo ricercatore e documentarista statunitense è una di quelle a cui Giono si sarebbe potuto ispirare.
Liu è famoso ai più per il documentario “Hope in a changing climate” in cui mostra l’enorme progetto di rigenerazione ecosistemica del Loess Plateau, un’area di 640 mila chilometri quadrati, al tempo fortemente degradata e tra le più povere della Cina.
Proposto in anteprima nel 2009 alla Cop15 di Copenaghen, il documentario mostrava per la prima volta a un pubblico internazionale come la rigenerazione degli ecosistemi naturali fosse una soluzione incredibilmente efficace dal punto di vista ambientale, economico e sociale per mitigare gli effetti della emergenza climatica e rafforzare la resilienza della specie umana.
La rigenerazione infatti, considerata come l’attività che ripristina le funzioni ecologiche di ambienti degradati, porta due benefici fondamentali a livello locale: diminuisce il rischio di alluvioni e frane, migliorando la ritenzione del suolo; aumenta le opportunità di guadagno dei contadini, grazie alla maggiore fertilità dei terreni. Questo senza contare il maggior beneficio che la riforestazione apporta a livello globale: attraverso la fotosintesi infatti, le piante assorbono l’anidride carbonica dall’atmosfera, immagazzinandola nel suolo e controbilanciando le emissioni di origine antropica.
Il messaggio alla base del documentario racchiude la necessità di comprendere, e successivamente cambiare, il valore del capitale naturale nel contesto di mercato. Ciò che siamo stati in grado di fare fino a ora è stato dare un valore monetario alla produttività agricola dei terreni, ma si fatica a trovare realtà di successo in cui venga assegnato un valore economico ai benefici vitali che biodiversità, alberi e suolo forniscono.
La caratteristica unica che rende così efficaci le soluzioni nature-based è la cross-settorialità. Mentre l’anidride carbonica viene rimossa dall’atmosfera e immagazzinata nel suolo, la ricchezza di biodiversità del luogo aumenta e la povertà diminuisce grazie al miglioramento nella sicurezza alimentare e idrica. Esattamente dieci anni dopo la fallimentare Cop di Copenaghen, una nuova ricerca, condotta dal Crowther Lab dell’Istituto Federale di Tecnologia di Zurigo (Eth Zurich), fornisce una stima del numero di alberi (900 milioni) e delle zone principali dove piantarli (Russia, Usa e Canada) affinché una volta maturi possano immagazzinare 205 miliardi di tonnellate di carbonio, ovvero due terzi della quantità di emissioni di origine antropica rilasciate nell’atmosfera dalla Rivoluzione industriale.
“La rigenerazione di ecosistemi forestali non è una delle tante soluzioni al cambiamento climatico, è al primo posto per immediatezza ed efficienza (…), è la più economica sul mercato e chiunque può portarla avanti, piantando alberi personalmente o donandoli ad organizzazioni attive sul campo”, sostiene Tom Crowther, capo del team di ricerca.
Questa soluzione, si legge nello studio pubblicato su Science, non deve escludere la necessità di azzerare le emissioni provenienti da combustibili fossili e nemmeno indebolire il divieto di deforestazione di aree vergini e pluviali: conservare è sempre più sostenibile ed economico che ripristinare. Infatti, affinché le foreste possano esprimere il potenziale benefico descritto nella ricerca, ci vorranno tra i 50 e 100 anni e come mostrano gli ultimi report Ipcc dobbiamo agire con urgenza sul taglio delle emissioni per provare a rimanere entro i due gradi di aumento di temperatura globale.
Christiana Figueres, ex segretario esecutivo dell’UN Climate Change (Unfccc) e René Castro, direttore generale del Dipartimento “Clima, biodiversità, terra e acqua” della Fao, hanno entrambi condiviso l’importanza di questa ricerca nel fornire un database scientifico ampio e dettagliato a governi e settore privato per investire in progetti di riforestazione.
La ricerca al suo interno non si dedica ai meccanismi di finanziamento dei programmi di riforestazione. Uno studio recente, condotto del World Resources Institute (Wri) e The Nature Conservancy (Tnc), va a colmare questa lacuna mappando gli sviluppi passati, le realtà di successo presenti e le opportunità future di quella che viene chiamata restoration economy. La ricerca ha selezionato 14 tra le centinaia di imprese analizzate, che rappresentano modelli di business scalabili di successo che ripagano gli investimenti, rigenerando terreni agricoli e forestali.
Se dieci anni fa dati di questo tipo non esistevano, ora la scienza dietro il ripristino ecosistemico è chiara a riguardo e la rigenerazione si sta affermando come soluzione primaria di mitigazione alla crisi climatica. È realistico oggi affermare che va ben oltre il trend temporaneo: l’Onu ha dichiarato il periodo 2021-2030 come la decade del ripristino degli ecosistemi, ponendo un obiettivo globale di 350 milioni di ettari rigenerati entro il 2030.
Una tra le più grandi e influenti agenzie di marketing internazionali, J. Walter Thompson Group, ha pubblicato un report dal titolo piuttosto chiaro The new sustainability: regeneration, per mostrare come nelle tre delle economie più grandi del mondo il comportamento dei consumatori stia attraversando un cambiamento paradigmatico verso scelte rigenerative. Manager, attivisti, scienziati e scrittori hanno firmato un appello lanciato da George Monbiot, giornalista del The Guardian, per chiedere ai governi di sostenere le soluzioni nature-based “con un urgente programma di ricerca, finanziamenti e impegno politico”. Giganti come Unilever e Danone stanno sviluppando, lungo la filiera di fornitori, programmi che vadano a promuovere l’agricoltura rigenerativa.
Un nuovo modello che, interiorizzata la fase teorico-idealistica (ma poco realista) della sostenibilità, passa all’azione. Un movimento che ritorna a parlare dei problemi strutturali del sistema economico come la crescita lineare, la massimizzazione dei profitti e la mercificazione illimitata delle risorse naturali vitali per la sopravvivenza umana. Una generazione che riavvolge il nastro rispolverando e rinvigorendo i pilastri fondanti dietro al concetto di sviluppo sostenibile: riciclare, riusare, ridurre. Questa volta non fermandosi al primo, ma pensandoli come un unico blocco, inseparabili l’uno dall’altro. Anzi, aggiungendone un quarto: rigenerare.
Il rischio che molte persone possano vedere questo cambiamento di prospettiva come un rebranding della sostenibilità esiste ma si argina facendo corretta informazione, basata su dati scientifici. Partendo dal coinvolgimento delle amministrazioni locali per rigenerare la connessione con il proprio luogo d’origine, favorendo la creazione di network interregionali e mostrando la necessità relativa di ciascun luogo all’interno del sistema mondo, in quello che Wolfgang Sachs chiamava “localismo cosmopolita”.
Per fare tutto ciò dobbiamo aggiustare la nostra scala di valori: trattare le risorse naturali oltre il valore di mercato, agevolando il pagamento per i servizi ecosistemici che offrono; ripensare alla diversità come fonte di innovazione e non come limite; rivalutare lo scarto come fonte di vita e non come qualcosa di inutile; annullare la dicotomia artificiale tra esseri umani e natura, causa principale di molte delle crisi che affrontiamo oggi.
Se scegliessimo di prosperare collaborando, invece che competere uno contro l’altro? Se scegliessimo di imparare dalla natura invece che provare a dominarla e manipolarla? È giunta l’ora di rigenerare.
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