L’industria europea della raccolta e del riciclo tessile sta attraversando una crisi senza precedenti. Il crollo dell’export, la caduta dei prezzi dovuti al fast fashion e l’aumento dei costi di gestione e magazzini spesso al limite della capacità sono i principali motivi per cui la filiera del riuso tessile non è più un business economicamente sostenibile.
A denunciare il rischio di un collasso fu per prima EuRIC, l’associazione europea di riciclatori, che a maggio del 2024 sollecitò l’introduzione di un sistema EPR europeo armonizzato, così che gli operatori potessero ricevere i contributi ambientali destinati a finanziare le proprie attività di raccolta e selezione degli indumenti.
Il 9 settembre il Parlamento europeo ha finalmente approvato nuove misure per ridurre e prevenire i rifiuti tessili, che, tra le altre cose, includono un sistema di responsabilità estesa del produttore. Dall’entrata in vigore della revisione della direttiva ciascun paese membro avrà trenta mesi per istituire uno schema EPR nazionale. Fino ad allora le imprese di riutilizzo tessile europee, tra cui quelle italiane, dovranno fronteggiare senza contributi ambientali il continuo aumento di capi di abbigliamento fast fashion, prodotti tessili di scarsa qualità che difficilmente trovano mercato nella filiera del riutilizzo e che sono impossibili da riciclare.
Le proposte per affrontare la crisi del riutilizzo tessile
Nei magazzini si accumulano montagne di capi di scarso valore, difficili da collocare sul mercato, con il rischio di finire in discarica. Per tamponare questa crisi, l’Associazione Riciclatori Europea FEAD e dalla Confederazione europea delle industrie del riciclo EuRIC ha proposto una decina di interventi urgenti: dalla riduzione dell’IVA per riutilizzo, riparazione e riciclo, all’eliminazione dell’esenzione doganale di 150 euro per l’import di prodotti fast fashion; dalla sospensione temporanea delle tariffe comunali sulla raccolta tessile, obbligatoria in Europa dal primo di gennaio a una maggiore protezione dalla competizione sleale con paesi extra UE e tanto altro.
Tra le potenziali soluzioni si parla anche di un contributo ambientale di 40 milioni di euro anticipato dallo Stato, che poi, una volta entrato in vigore l’EPR, si farebbe rimborsare dai produttori tessili. Un’iniziativa simile a quella adottata dal governo francese, che ha deciso di supportare la filiera con 57 milioni di euro, aumentando il contributo ambientale a 223 euro per tonnellata nel 2025 e a circa 228 euro nel 2026.
L’aumento del fast fashion, l’esempio dell’Italia
L’accumulo e lo smaltimento di abiti di scarsa qualità non alimentano la circolarità del settore tessile, ma rischiano piuttosto di soffocarlo. A confermarlo ci sono anche dei dati pubblicati dall’Osservatorio Ipsos, secondo cui negli ultimi dodici mesi gli italiani hanno eliminato dal proprio guardaroba una media di 7,6 capi di abbigliamento a persona.
Realizzato per conto del Consorzio Erion Textiles, lo studio rivela una dismissione diffusa e consistente di abiti, scarpe e stracci o tessuti danneggiati. Le motivazioni principali sono due: da un lato il deterioramento dei capi, dall’altro il semplice “non utilizzo”. Dal punto di vista territoriale sono i cittadini del Nord Italia a contribuire di più al fenomeno, con una media di 8,4 capi contro i 6,4 del Sud.
Dal report dell’Osservatorio Ipsos emerge come una quota rilevante di giovani tra i 18 e i 26 anni tenda a disfarsi di un capo non tanto perché usurato, quanto perché considerato “fuori moda” o frutto di un acquisto online poco soddisfacente. Spesso si tratta di abiti acquistati a prezzi stracciati su piattaforme di e-commerce, in gran parte cinesi, già finite nel mirino delle autorità per pratiche di concorrenza sleale e greenwashing. Un fenomeno che non solo pesa sull’ambiente, ma mina anche la competitività dell’industria della moda europea.
Africa e Asia, le rotte degli indumenti usati
Secondo gli ultimi dati disponibili, elaborati dall’Agenzia europea dell’ambiente, la quantità di prodotti tessili usati esportati dall’UE è triplicata negli ultimi due decenni, passando da poco più di 550.000 tonnellate nel 2000 a quasi 1,7 milioni di tonnellate nel 2019. Si tratta di una media di 3,8 chilogrammi a persona, ovvero il 25% dei circa 15 chilogrammi di vestiti consumati ogni anno nell’UE.
Ma dove finiscono questi enormi flussi di indumenti? Nel 2019 il 46% dei prodotti tessili usati è stato esportato in Africa, soprattutto orientale, trovando una seconda vita principalmente nel mercato second hand. Al secondo posto c’è l’Asia, che importa il 41% dell’usato totale. Tra i 27 stati membri, Germania, Polonia e Paesi Bassi sono i maggiori esportatori.