Tra gli impatti ambientali, sociali e un modello di business che sta mettendo in ginocchio i marchi storici della moda francese, il fast fashion in Francia non gode più di buona fama. A testimoniarlo è il disegno di legge approvato dall’Assemblea nazionale francese giovedì 14 marzo che introduce un sovrapprezzo basato sull’impatto ambientale dei prodotti tessili e regole più stringenti per i venditori online. Nel mirino c’è la moda ultraveloce, artefice di un modello che non rispetta le politiche europee sull’economia circolare, i diritti dei lavoratori, e schiaccia la concorrenza attraverso metodi poco sostenibili.
Il parlamento francese contro il fast fashion
Se la legge dovesse passare anche al Senato, a partire dal 2025 entreranno in vigore tre norme. La prima prevede che in tutte le piattaforme e-commerce nelle quali si vendono vestiti e accessori di fast fashion ‒ cioè di produzione tessile a basso costo e delocalizzata ‒ vengano inseriti dei messaggi che incoraggino al riuso e alla riparazione e che diano informazioni sull’impatto ambientale dei prodotti.
La secondo norma introduce un sovrapprezzo fino a un massimo di 10 euro che non potrà superare il 50% del prezzo del capo d’abbigliamento. La misura si basa sul principio della responsabilità estesa del produttore (EPR) e verrebbe calcolato in base all’impatto ambientale e alle emissioni di CO₂ generate dalla realizzazione dell’indumento, indipendentemente dal fatto che appartenga o no al fast fashion. Da non dimenticare il fatto che il testo assicura anche uno schema di premialità che farebbe costare di meno i prodotti più sostenibili e di alta qualità.
Infine, la terza norma prevede dal 1° gennaio 2025 di vietare le pubblicità online che incoraggiano l’acquisto di abiti e accessori fast fashion. Nel mirino ci sono anche i video a pagamento di influencer che ne promuovono la vendita attraverso l’unboxing, ovvero l’atto di spacchettare un acquisto mostrandone il procedimento ed il contenuto. Quest’ultimo punto si allinea alla legge “climat et résilience” che ha già vietato la pubblicità a favore dei combustibili fossili o del greenwashing; pertanto, la proposta fa parte di uno sforzo continuo per allineare il settore pubblicitario ai nostri impegni nazionali (in Francia, europei e internazionali per la protezione dell’ambiente.
Il caso Shein
Secondo Refashion, consorzio che rappresenta oltre 5.000 imprese francesi, nell’ultimo decennio in Francia il numero di abiti venduti annualmente è aumentato di un miliardo . Oggi raggiunge i 3,3 miliardi, ovvero più di 48 per abitante in media. Principale colpevole di questa sovrapproduzione, secondo il partito di centro destra Horizons et apparentés, è Shein, brand cinese che piace alla Gen Z e ha chiuso il 2023 con 23 miliardi di dollari di entrate. “Abiti a meno di 15 euro, giacche a 9,99 euro, magliette a 1,50 euro”, si legge nel preambolo della proposta di legge presentata da Horizons – La marca Shein produce in media più di 7.200 nuovi modelli di abbigliamento al giorno e mette a disposizione dei consumatori più di 470.000 prodotti diversi.”
Secondo un recente rapporto della rete ambientalista Les Amis de la Terre France, Shein produce circa 1 milione di capi di abbigliamento al giorno, ovvero dalle 15.000 alle 20.000 tonnellate di emissioni di CO₂. Nel 2022 Greenpeace aveva invece denunciato la presenza di sostanze chimiche pericolose negli indumenti targati Shein.
Brand come Shein, Temu e Boohoo, stanno attirando quel tipo di consumatori che raramente vogliono o possono spendere più di 10 euro per riempire i propri guardaroba con prodotti alla moda. Secondo un rapporto dell’applicazione per lo shopping Joko, alla fine del 2023 Shein è stata la seconda piattaforma per acquisti di moda online in Francia. Il primo posto, tuttavia, è stato conquistato da Vinted, una piattaforma di abbigliamento second hand in rapida crescita.
Come riporta uno studio pubblicato sulla rivista scientifica Nature, l’industria tessile produce da sola il 10% delle emissioni di gas serra mondiali, consuma 1,5 mila miliardi di acqua all’anno, contribuisce all’inquinamento delle falde acquifere e alla dispersione di microplastiche nell’ambiente. Principale responsabile di questo impatto, secondo l’Assemblea nazionale francese, sono proprio i brand del fast fashion.