La chiusura dei cicli industriali, al fine di garantire l’utilizzo efficiente delle risorse e la mitigazione degli impatti ambientali, risulta essere uno dei principi fondanti dell’economia circolare. In questo quadro, il concetto di simbiosi industriale e la sua attuazione nella pratica risultano elementi imprescindibili, per cogliere appieno le opportunità poste dalla trasformazione dell’attuale sistema produttivo.
Il concetto di simbiosi industriale è legato a doppio filo con l’ecologia industriale così come teorizzata da Robert Frosch nel 1992. Analogamente agli ecosistemi naturali, secondo Frosch, gli “ecosistemi industriali” oltre alla minimizzazione dei rifiuti prodotti dalle proprie attività, dovrebbero infatti essere in grado di riutilizzare il più possibile materiali e prodotti di scarto, destinandoli a nuovi processi produttivi. Tale analogia viene inoltre supportata dalle considerazioni, elaborate sempre in quegli anni, da Robert Ayres: similmente a quanto accade nella biosfera dove si osserva un utilizzo efficiente di risorse materiali ed energia la “tecnosfera”, immaginabile come il luogo dove risiedono e operano le attività industriali, dovrebbe essere indirizzata verso una riprogettazione dei propri processi produttivi, al fine di minimizzare i dannosi rilasci di sottoprodotti inutilizzati nell’ambiente. La definizione di ecologia industriale emersa così nel corso degli anni, grazie al contributo di numerosi studi e pubblicazioni sul tema, fornisce quindi una visione integrata su larga scala, che immagina la progettazione futura delle infrastrutture industriali come una serie di ecosistemi interconnessi e interfacciati all’ecosistema globale.
Giungendo al concetto di simbiosi industriale, questa può essere definita come una strategia di ottimizzazione dell’utilizzo delle risorse, applicata mediante il coinvolgimento di industrie tradizionalmente separate, finalizzata alla generazione e promozione di vantaggi competitivi derivanti dal trasferimento di materia, acqua, energia, sottoprodotti, spazi e competenze. L’applicazione dei principi alla base di tale approccio garantisce ovviamente dei possibili vantaggi riconducibili alla sfera ambientale, economica e sociale: in primo luogo i vantaggi ambientali, sono derivanti da un impiego ottimizzato delle risorse con la conseguente attenuazione delle pressioni ambientali associate ai più tradizionali modelli industriali; i vantaggi economici sono invece da ricercarsi nei miglioramenti ottenibili a livello di processo industriale, nella riduzione dei costi per l’approvvigionamento delle materie prime e nella creazione di nuove opportunità di mercato; per ultimo i benefici sociali sono attribuibili alle possibili ricadute positive in termini occupazionali e di sviluppo locale.
Una volta inquadrato il concetto, sorge quindi spontanea una domanda: come possono essere tradotte nella pratica le strategie di simbiosi industriale? L’implementazione di quest’ultime può essere realizzata sulla base di diversi modelli operativi, di seguito descritti nei loro tratti più caratteristici:
- Distretti industriali, i quali rappresentano lo sviluppo di meccanismi di simbiosi industriale in ambiti territoriali, basati tipicamente su un approccio “bottom-up” in quanto sviluppati a seguito della creazione di un sistema di relazioni imprenditoriali, indipendentemente da specifiche programmazioni di carattere urbanistico o industriale, ma sulla base di accordi spontanei per la realizzazione di scambi di materia, energia o servizi; La direttiva 2018/850/Ue di modifica della direttiva 1999/31/Ce (discariche di rifiuti);
- Parchi Eco-industriali, i quali si basano invece su un approccio “top-down” essendo sviluppati a partire da iniziative normative settoriali; La direttiva 2018/852/Ue di modifica della direttiva 94/62/Ce (imballaggi e rifiuti di imballaggio).
- Reti per la simbiosi industriale, quest’ultime definibili come strumenti volti a facilitare l’incontro tra domanda e offerta di risorse tra interlocutori differenti che, sulla base della propria attività economica, non avrebbero altrimenti occasione d’incontro.
Simbiosi industriale: gli interventi normativi in Europa e in Italia
Le potenzialità offerte dalla simbiosi industriale sono state oggetto di alcuni interventi normativi, riscontrabili sia a livello Europeo sia a livello nazionale.
A livello comunitario, già a partire dalle comunicazioni COM (2011) 571 (Tabella di marcia verso un’Europa efficiente nell’impiego delle risorse), COM (2014) 398 (Verso un’economia circolare programma per un’Europa a zero rifiuti) e COM(2015) 614 (L’anello mancante – Piano d’azione dell’unione Europea per l’economia circolare), la simbiosi industriale viene riconosciuta come un tassello fondamentale per stimolare nuovi modelli di produzione, volti a garantire un utilizzo razionale ed efficiente delle risorse, con la possibilità per l’economia europea, di sfruttarne i vantaggi in termini ambientali, economici e sociali. I contenuti delle sopracitate comunicazioni sono stati successivamente recepiti nel Pacchetto sull’economia circolare approvato il 18 aprile del 2018 dal Parlamento europeo e rivisto più recentemente, a seguito della presentazione del Green Deal europeo, lo scorso marzo. In quest’ultimo documento con rifermento allo sviluppo di processi di simbiosi industriale a livello comunitario, si sottolinea l’importanza della realizzazione di uno specifico sistema di reporting e certificazione promosso dal comparto industriale, al fine di favorire e migliorare l’utilizzo dei sottoprodotti nei suddetti processi industriali.
Passando al nostro paese, oltre al recepimento delle direttive precedentemente citate, è possibile citare alcune specifiche misure volte a garantire lo sviluppo di tali pratiche. Particolare importanza è attribuibile al D.lgs. 112/1998 in cui all’articolo 26 vengono introdotte nell’ordinamento nazionale le Aeree Produttive Ecologicamente Attrezzate (APEA), la cui disciplina viene demandata alle regioni, e definite come aree industriali dotate delle infrastrutture e dei sistemi necessari volti a garantire la tutela della salute, della sicurezza e dell’ambiente. L’istituzione di tali aree prevede il conseguimento di elevati standard ecologico ambientali nonché la gestione organica delle installazioni e dei servizi atti a ridurre le pressioni sulle risorse naturali derivanti dalle attività produttive, a prevenire ogni forma d’inquinamento, a tutelare la salute e la sicurezza. Ad oggi si contano 10 regioni, che hanno già legiferato in materia di APEA (Abruzzo, Calabria, Emilia-Romagna, Liguria, Marche, Piemonte, Puglia, Toscana, Sardegna e Lazio). Tra queste, la Toscana suscita particolare attenzione, in quanto rappresenta uno degli esempi più avanzati sul fronte dello sviluppo normativo su tale materia. Già a fine 2009 la regione si era infatti dotata di un proprio sistema di certificazione per le suddette aree industriali, stabilito mediante il Regolamento Regionale 74/r e la Deliberazione del 28 dicembre 2009, nella quale vengono istituiti i criteri per la definizione delle prestazioni ambientali delle APEA. Mediante tali atti normativi, la regione Toscana stabilisce infatti che, ai fini dell’ottenimento della qualifica di APEA, tali aree dovranno soddisfare una serie di requisiti minimi di carattere urbanistico-edilizio, infrastrutturale e gestionale.
Per le altre regioni invece la situazione risulta essere alquanto variegata, con alcune di queste come Sicilia e Friuli-Venezia Giulia che hanno sviluppato altre norme volte ad agevolare la gestione ambientale delle aree produttive, a cui si aggiungono i casi in cui la normativa sul tema è completamente assente o in corso di implementazione.
Esempi di simbiosi industriale: il caso di Kalundborg e i distretti industriali italiani
Le opportunità poste dallo sviluppo di sistemi di simbiosi industriale sono già ad oggi testimoniate da alcune realtà affermatesi nel corso degli anni. A livello comunitario per esempio particolarmente rilevante è il caso del Kalundborg industrial park situato in Danimarca, il quale rappresenta uno dei distretti industriali maggiormente conosciuti ben oltre i confini europei. La realtà di Kalundborg si è andata sviluppando a partire già dagli anni ’60, in seguito all’instaurazione di una fitta e complessa rete di scambi di materia ed energia tra i soggetti operanti nel settore chimico, dell’energia, delle biotecnologie, dell’edilizia, della gestione delle acque e dei rifiuti. Seguendo un approccio “bottom-up”, le collaborazioni nate nel corso degli anni, non si sono sviluppate a seguito di una specifica programmazione urbanistica ed industriale, ma in maniera quasi fisiologica: queste si sono infatti create a seguito di iniziative dei singoli soggetti mossi dalla volontà di sfruttare i vantaggi economici derivanti dallo sviluppo delle possibili sinergie attivabili.
Una criticità che il distretto di Kalundborg si è trovato ad affrontare sin dagli inizi, riguarda la scarsità della risorsa idrica: questa secondo alcuni studi sarebbe stata infatti una delle principali cause che avrebbero innescato la nascita delle prime forme di collaborazione. Tra i processi di simbiosi instauratisi, uno di questi coinvolge per l’appunto l’acqua e nello specifico quella proveniente dalle raffinerie del distretto che, a seguito dei processi di depurazione, viene destinata alla centrale elettrica Asnaes per essere impiegata nel raffreddamento degli impianti. Il modello proposto dal distretto danese, si basa inoltre sullo scambio di energia, operato mediante il teleriscaldamento fornito dalla stessa centrale elettrica, verso la municipalità di Kalundborg e le altre aziende facenti parte della rete, come per esempio quelle operanti nel settore della pescicoltura che sfruttano il calore ceduto per il riscaldamento dell’acqua dei propri allevamenti.
Tra i sottoprodotti generati dalla centrale, si ritrovano oltre 70.000 tonnellate di cenere che vengono rivendute all’industria cementizia, in grado di reimpiegarle nei propri processi produttivi. In aggiunta a questi si sommano gli scarti di diossido di zolfo che, una volta trasformato in solfato di calcio (gesso), viene quindi adoperato dalle imprese locali operanti nella produzione di cartongessi.
Altri processi di simbiosi, coinvolgono infine una serie di realtà attive nel settore delle biotecnologie come la Novo Nordisk, i cui fanghi di scarto derivanti da alcuni processi biologici, vengono destinati alle fattorie limitrofe per essere impiegati come fertilizzanti agricoli. La complessità e la numerosità di flussi che coinvolgono materia ed energia, qui solamente accennati, testimoniano le grandi opportunità derivanti dall’applicazione di modelli industriali simbiotici: in primo luogo risultano evidenti i vantaggi economici derivanti dalla valorizzazione dei propri rifiuti e scarti, che in un modello di economia lineare verrebbero altrimenti visti come dei costi, a cui si sommano gli innumerevoli benefici ambientali in termini di risparmio di materie prime vergini e inquinamento; in secondo luogo si riconferma, grazie all’esempio sopra riportato, la possibilità di coniugare crescita economica e attenzione alla sostenibilità.
Similmente a quanto testimoniato dagli esempi europei, anche sul nostro territorio si possono ritrovare alcuni esempi, più o meno riusciti, di implementazione di pratiche di collaborazione tra soggetti imprenditoriali. Nello specifico in Italia, si sono andati creando nel corso degli anni, oltre 141 distretti produttivi, sorti innanzitutto a seguito delle necessità relative alla gestione dei propri rifiuti, sulla quale persistono ancora ad oggi nel nostro paese, alcune criticità. Tali distretti si definiscono come aree produttive, con alta concentrazione di piccole e medie imprese (PMI) contraddistinte da un alto livello di specializzazione, una forte interdipendenza dei propri processi produttivi e una spiccata integrazione con il contesto territoriale nel quale si collocano. Analogamente a quanto avviene per la produzione di beni e servizi, anche la gestione dei sottoprodotti e dei rifiuti dovrebbe essere orientata in quest’ottica, come testimoniato da alcuni casi emblematici.
Il distretto di Brescia rappresenta in tal senso una prima dimostrazione, nel quale grazie alla collaborazione instauratasi tra Confindustria locale e il consorzio Conou, si è creata una complessa rete di raccolta e valorizzazione degli oli minerali. Tramite tali collaborazioni sono state raccolte e inviate a riciclo oltre 5000 tonnellate di olio industriale. Tra i distretti industriali formatisi in Italia, è possibile citare anche il caso del distretto del cuoio di Santa croce sull’Arno e dal più famoso distretto del tessile di Prato. Il primo si caratterizza per la produzione di pelle e cuoio impiegati in settori quali l’arredamento, la pelletteria e il settore moda in generale. L’elemento più caratteristico del distretto risiede nella gestione condivisa da parte delle aziende locali, delle acque di scarico le quali vengono collettate e gestite in un unico impianto di depurazione centralizzato. Il secondo esempio invece, rappresenta ad oggi uno dei modelli all’avanguardia nel recupero di materia derivante da indumenti usati, ma al contempo testimonia alcune delle difficoltà riscontrate nell’implementazione di pratiche virtuose a causa della normativa vigente. Tale esperienza ha infatti permesso di sviluppare un sistema di simbiosi, volto al trattamento di oltre 180 mila tonnellate all’anno di rifiuti tessili e oltre 50 mila tonnellate di cascami e avanzi di lavorazione, che attualmente però sono ancora classificati come rifiuti. Proprio qui risiede un evidente problema di carattere legislativo, che pregiudica la corretta implementazione dei principi di economia circolare e più nello specifico di simbiosi industriale. I cascami infatti risultano essere a tutti gli effetti dei sottoprodotti, secondo quanto prescritto dall’articolo 184-bis del D.Lgs 152/2006, in quanto provenienti direttamente da processi produttivi e non comportano alcun rischio per l’ambiente e la salute. Purtroppo però la normativa vigente, prevedendo per quest’ultimi una caratterizzazione come rifiuto, ne impedisce il loro immediato riutilizzo nei telai. La situazione che si va così generando ha delle evidenti ricadute negative in termini economici e ambientali in primis, in quanto determina un aggravio dei costi per le imprese e un utilizzo poco efficiente di una risorsa che potrebbe essere altrimenti nuovamente impiegata.
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