Per qualificare le terre e rocce da scavo come sottoprodotti ai sensi del Dpr 120/2017 è necessario che il loro utilizzo avvenga sulla base di un “piano di utilizzo” o, per i cantieri di piccole dimensioni, di una “dichiarazione di utilizzo”.
È quanto ha ricordato la Corte di Cassazione (sentenza 15450/2023) nel respingere il motivo di ricorso presentato contro una sentenza di condanna, per deposito non autorizzato di rifiuti non pericolosi (ex articolo 256, comma 1, Dlgs 152/2006), inflitta da un Tribunale della Basilicata a soggetti responsabili di un deposito non autorizzato di terre e rocce da scavo, che in giudizio avevano rivendicato la conformità del materiale ai requisiti stabiliti dal regolamento sul riutilizzo delle terre da scavo (Dpr 120/2017) per la qualifica come sottoprodotto, senza tuttavia allegare alcun piano (o dichiarazione).
Anche il richiamo alla disciplina di deroga prevista per il “deposito temporaneo” dei rifiuti non è servito ad evitare la conferma della condanna per i ricorrenti: la Suprema Corte ha infatti convenuto con la lettura del Giudice di merito che ne ha escluso la possibile ricorrenza sia in considerazione dei limiti quantitativi previsti dalla norma (a fronte di un deposito stimato pari a circa 300 metri cubi di terre), sia in considerazione dell’assenza di collegamento funzionale tra il sito di produzione e il sito di deposito delle stesse.
Con riferimento al primo aspetto, in particolare, la Suprema Corte richiama il condivisibile orientamento giurisprudenziale “secondo cui il deposito temporaneo, in tema di gestione illecita di rifiuti e nell’ipotesi in cui gli stessi superino — come nel caso di specie — il volume di 30 metri cubi, ricorre solo nel caso in cui il raggruppamento dei rifiuti e il loro deposito preliminare alla raccolta, ai fini dello smaltimento, non abbia avuto durata superiore a tre mesi”.
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