La Corporate Sustainability Reporting Directive è una direttiva europea che obbliga le grandi aziende europee (e alcune piccole medie imprese) a rendere pubblici i dati su come il loro modello di business e produzione impatta sull’ambiente e sulle persone. Entrata ufficialmente in vigore il 5 gennaio di quest’anno, è una normativa che completa una parte del puzzle del Green Deal europeo in tema di finanza sostenibile con lo scopo di fornire agli investitori strumenti migliori per prendere decisioni informate.
La direttiva coinvolgerà gradualmente circa 50.000 aziende, con un significativo allargamento del raggio d’azione rispetto alle 11.770 imprese che fino ad oggi facevano reportistica. Nello specifico, la divulgazione dei dati riguarderà l’impatto delle loro attività sul piano sociale e ambientale, con particolare attenzione ai rischi collegati alla crisi climatica. Tra i fattori ambientali da rendicontare sono inclusi la mitigazione dei cambiamenti climatici, l’adattamento, le risorse idriche e marine, l’uso delle risorse e l’economia circolare, l’inquinamento, la biodiversità e gli ecosistemi.
Gli standard della Corporate Sustainability Reporting Directive
I nuovi obblighi di trasparenza sulla sostenibilità introdotti dalla Corporate Sustainability Reporting Directive si applicheranno con diverse tempistiche. Dal 2024 toccherà alle aziende multinazionali con più di 500 dipendenti; dal 2025 gli obblighi si estenderanno alle imprese con oltre 250 dipendenti e/o un fatturato di 40 milioni di euro. Nel gennaio 2026 si partirà invece con le Pmi, tranne quelle che sceglieranno di posticipare l’adesione al 2028, e le altre imprese quotate.
Le aziende soggette al CSRD dovranno rendicontare secondo gli European Sustainability Reporting Standards (ESRS) sviluppati dall’EFRAG che è un organismo indipendente che riunisce vari stakeholders. Per le società attive in Europa ma con sede legale extracomunitaria, l’obbligo di fornire una relazione sulla sostenibilità si applica per quelle che generano un fatturato netto di 150 milioni di euro all’interno dei confini europei e che hanno almeno una filiale o succursale in Europa che supera determinate soglie.
Dal momento che la conformità e le sanzioni sono lasciate agli Stati membri, le aziende saranno tenute a sottoporsi a controlli e verifiche indipendenti al fine di garantire l’affidabilità e la veridicità delle dichiarazioni sulla sostenibilità- Inoltre, gli investitori avranno l’accesso digitale alle informazioni sulla sostenibilità aziendale.
Perché si è reso necessario superare la Direttiva NFRD
Nel 2014 l’Unione europea aveva emanato una direttiva, chiamata Non-Financial Reporting Directive (NFRD), che rendeva questo report obbligatorio per le grandi società di interesse pubblico con più di 500 dipendenti, tra cui aziende quotate, compagnie di assicurazione, banche, e tutti gli organismi indicati come strategici dalle autorità nazionali. Questa direttiva sulle dichiarazioni non finanziarie ha rappresentato senza dubbio un primo step necessario ma che col tempo, a detta delle stesse istituzioni europee, si è rivelato largamente insufficiente.
La direttiva NFRD non era chiara e presentava lacune legislative, il che rendeva difficile per gli investitori e il pubblico confrontare le diverse aziende. Alcuni studi infatti hanno messo in dubbio la qualità dei report.
Gli allarmi lanciati dalle associazioni
Ong e associazioni, tra cui WWF e Transport and Environment, hanno lanciato in una lettera congiunta alcuni preoccupazioni sulla puntualità delle rendicontazioni. “Innanzitutto qualsiasi ritardo nella raccolta dei dati – si legge nel documento – potrà indebolire il sostegno delle aziende e degli operatori del mercato finanziario alla transizione sostenibile e al raggiungimento degli obiettivi fissati nel Green deal.”
I firmatari, poi, si rendono disponibili a contribuire alla stesura dei criteri di sostenibilità per far sì che le tre dimensioni ESG (environmental, social and governance)” siano ben coperte e non ci si concentri unicamente “sulle informazioni rilevanti per il valore d’impresa”. Inoltre, viene evidenziato che il lavoro tecnico necessario per sviluppare gli standard di rendicontazione della sostenibilità aziendale dovrebbe essere finanziato dal settore pubblico, allo scopo di assicurare la fattibilità e la trasparenza del processo di definizione degli standard, prevenendo cioè qualsiasi potenziale pregiudizio o conflitto di interessi.
Si legge in conclusione che la nuova Corporate Sustainability Reporting Directive rappresenta un significativo passo avanti dal punto di vista culturale, in quanto promuove la valutazione dell’operato di un’impresa non solo in base al suo successo finanziario, ma anche in base alla sua adozione di misure e strumenti che contribuiscono allo sviluppo del territorio. Inoltre, questa normativa potrebbe aiutare le imprese a comprendere gradualmente quali temi siano da includere nella propria rendicontazione, tenendo conto degli effetti prodotti sui loro interlocutori e dei benefici generati sull’ambiente.
Il buon auspicio da parte delle Ong è che questa transizione ecologica sia anche democratica e meritocratica: “La direttiva CSRD rischierebbe infatti di favorire quelle stesse (ben note) società di consulenza che finora hanno lavorato per l’industria fossile e che stanno provando a reclutare tra le proprie fila ambientalisti attivi sul campo”. C’è il timore che queste grandi società di consulting non siano in grado di fornire risultati concreti finché il loro obiettivo principale rimane quello di massimizzare i profitti dei clienti.