Rivista Rifiuti n°274
Un po’ come i presidi ambientali previsti normativamente: si occupano di cose complicatissime e declinano concetti fondamentali, snocciolando saperi possenti con linguaggi quasi alieni. Ma si smarriscono davanti all’azione semplice e, semplicemente, la dimenticano.
Penso alla nuova direttiva 2018/851/Ue che, riformando la direttiva 2008/98/Ce sui rifiuti, introduce il concetto di economia circolare. Penso all’occasione perduta di modificare una definizione di rifiuto che con il suo olistico “disfarsi” conta ormai ben 44 anni di vita (risale alla direttiva 75/442/Ce).
Una definizione perfetta quando i rifiuti erano una minaccia e un pericolo; se oggi i rifiuti devono, giustamente, diventare una risorsa, la definizione è sbagliata. La bomba atomica è una triste realtà, ma non per questo viviamo nei bunker.
In 64 punti di motivazione che occupano ben 10 pagine di Gazzetta Ue e precedono la parte dispositiva, si intessono le lodi dei rifiuti trasformati in risorse e si tracciano le strategie per uscire dalla crisi ambientale generata dall’economia lineare.
Il preambolo spiega molte cose e, con fraseggio suadente, si avvinghia al suo lettore convincendolo che tutto sarà più bello, più facile e più pulito. Nulla di difficile in questa transizione dalla linea al cerchio, anzi. Questo però è (più) vero in paesi diversi dal nostro, dove le autorizzazioni sono percorsi amministrativi normali e i loro presupposti sono non solo scritti nella norma ma, soprattutto, sono sedimentati nella intelligenza collettiva. Una miscela che, affidata al “genius loci“, riempie di contenuto iniziativa e tutela, economia e creatività. Ostaggio di norme oscure, ossessioni, demagogie, ignoranza, difficoltà di ogni sorta, l’economia circolare in Italia è meno affascinante e a volte diventa dolorosa. Quello che era vero ieri rischia di non esserlo domani.
L’idea romantica di ambiente dimentica la necessità economica che la tutela ambientale passi per lo sforzo produttivo e la tecnologia di impianti, sempre più avanzati. Un romanticismo che vanifica ogni sforzo anche perché fatto proprio da chi, sempre più spesso, si affida alle emozioni, al surreale straniante delle visioni di un’inesistente Arcadia.
L’economia circolare non è un cliché da cartolina, un’opera incompiuta. La discesa a patti con la ragionevolezza deve diventare una categoria concreta.
E, invece, così non è stato. Per risolvere il problema sollevato sull’End of Waste dalla sentenza del Consiglio di Stato del 2018 sulla impossibilità delle Regioni di concedere le autorizzazioni caso per caso, il decreto “sblocca cantieri” formula una norma che non significa niente: le Regioni autorizzano in base ai vecchi decreti sul recupero agevolato, e si liberano solo le quantità. Con decreto del Ministro dell’ambiente “possono” (sic!) essere emanate linee guida per uniformare l’applicazione della norma soprattutto con riguardo alle verifiche di quanto entra nell’impianto di riciclo e di quanto ne esce. Torna l’ossessione del controllo e sparisce la razionalità. La norma dello “sblocca cantieri” parte bene e finisce male perché ingessa il sistema fino a quando non saranno emanati nuovi decreti sull’End of Waste (sic!). Avrebbe, invece, dovuto far sì (come suggerito, a maggio, su queste pagine) che i decreti sul recupero agevolato fossero la “portaerei” messa in mano ad un Minambiente reso agile e snello che potesse modificarli velocemente ad ogni necessità delle imprese e, intanto, procedesse con i decreti verticali di End of Waste. Era un gesto semplice ma tanto rivoluzionario quanto un bambino che cammina.
L’azione semplice che la nuova direttiva avrebbe dovuto fare era cambiare la definizione di rifiuto, sostituendo ad uno stellare e anacronistico “disfarsi” un ritorno ad un più realistico “abbandono”; allora sì i rifiuti, tutti, sarebbero stati risorse vere messe in mano alla genialità dell’industria del riciclo, soprattutto nazionale. Se il problema dei rifiuti sembra solo italiano, l’Italia ha perso un’occasione in Europa per attenuarlo. Passare dal disfarsi all’abbandono, poteva voler dire tornare al passato, un passato che però ha fondato l’industria europea e italiana del riciclo e del recupero. Al passato ci si è tornati lo stesso, senza aver però imparato nulla e peggiorando quel poco che si era fatto.
Una specie di monologo interiore che genera solo un instabile reticolo di domande e che mette in discussione il tempo: quello della sopravvivenza della nostra industria del riciclo e del recupero.
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