Gli alberi assorbono CO2. Si! È per questo che alla COP26 si è lavorato per raggiungere un accordo per aumentarne il numero. Ma fino a che punto piantare alberi dovrebbe aiutarci a combattere il cambiamento climatico? Le stime dicono che la riforestazione di una superficie estesa come gli Stati Uniti porterebbe a riassorbire il 10% della CO2 emessa a livello globale nell’arco di un anno: numeri di certo non sufficienti a contenere l’innalzamento delle temperature sopra i 2C° rispetto ai livelli preindustriali, tenuto conto che la deforestazione è raddoppiata solo nell’ultimo quinquennio.
Monocoltura di alberi non è rimboschimento
È anche vero però che non c’è mai stata un’ambizione così grande di piantare alberi a livello globale.
Nel 2014, 51 nazioni si sono impegnate a piantare oltre 3.5 milioni di chilometri quadrati di foresta entro il 2030. Un’area leggermente più estesa dell’India.
Sembra che il target sarà raggiunto, ma c’è un problema: Secondo un report di Greenpeace, il 45% degli alberi vengono piantati in monocolture, cash-crop come la palma da olio e l’eucalipto che dopo dieci anni sono tagliati, vanificando l’obiettivo iniziale di compensare le emissioni. Complessivamente, questi alberi stoccano soltanto 1/14 del carbonio che le foreste naturali farebbero sul lungo termine, anche perché il modo in cui vengono coltivati non permette la crescita del sottobosco e la preservazione della biodiversità. Diverse comunità locali stanno infatti protestando contro questa forma di rimboschimento a monocoltura, sostenendo come sia fonte di conseguenze più negative che positive.
COP26: la promessa di fermare la deforestazione entro il 2030
Il primo grande accordo della COP26 conferma l’attenzione a livello globale sul tema: oltre 100 leader mondiali hanno promesso di porre fine ed invertire la deforestazione entro il 2030. Il Brasile, che ha visto ampie aree della sua foresta amazzonica essere convertite in coltivazioni di soia e pascolo per bestiame, è tra i firmatari. La promessa include fondi pubblici e privati di quasi $19.2 miliardi, inclusi oltre $1.1 miliardo diretti al bacino pluviale del Congo. La mossa è stata accolta positivamente dagli esperti, che però hanno ricordato come un accordo simile fosse già stato preso nel 2014 senza che questo fermasse minimamente la deforestazione (ha anzi continuato ad aumentare). Ci sono delle difficolta intrinseche nell’implementazione di un piano di tali dimensioni, incluse le dispute tra paesi donatori e riceventi (è accaduto tra Norvegia e Brasile) e la crescente richieste di carne da parte da parte della popolazione delle economie emergenti; i governi dovranno fare campagne di sensibilizzazione per ridurne il consumo? Ma secondo Slow Food, che ha seguito i lavori della due giorni dedicata alla natura e all’uso del suolo, “la Cop26 non ha centrato un approccio corretto sulla produzione agricola: parlare di agricoltura sostenibile senza considerare l’intero sistema alimentare non permette infatti di avere una visione complessiva e veritiera sui problemi. Le proposte emerse sembrerebbero andare in due direzioni diverse presentate come complementari: da un lato la riforestazione e dall’altro le nuove tecnologie in agricoltura. In realtà a essere riproposto è un vecchio modello, secondo il quale il cibo è considerato come un insieme di merci prodotte su larga scala, con monocolture assistite da tecnologie futuristiche che non faranno altro che far dipendere i contadini sempre di più dalle multinazionali e dai loro brevetti”.
I crediti di compensazione delle emissioni
Le piantagioni in monocoltura sono spesso favorite perché portano profitto. Centrale in questo contesto è il tema della compensazione delle emissioni, le cui iniziative sono sempre più abbracciate da paesi e aziende in cerca di ridurre il proprio impatto e migliorare la propria immagine. Citando Andrea Barbarella, coordinatore di Italy for Climate, “fare un’operazione di riforestazione significa curare e far crescere le piante per almeno trent’anni. La complessità e la durata dei processi di riforestazione sono tali che i crediti di compensazione dovrebbero avere un costo non inferiore ad alcune decine di euro per tonnellata di CO2 assorbita, mentre oggi vengono venduti anche a pochi euro a tonnellata. Questi avviene anche per via della presenza di alcuni escamotages”, come il conteggio in un singolo anno del carbonio assorbito dall’albero in tutta la sua vita o dell’includere nei crediti la recinzione/protezioni di boschi già esistenti.
Il fatto che molte nazioni tentino di compensare le emissioni da combustibili fossili conteggiando il carbonio assorbito dal terreno e dagli alberi nel loro territorio è un’altra importante area di controversia. Le regole dell’ONU permettono infatti a paesi come USA, Cina e Russia di ridurre oltre mezzo miliardo di tonnellate di emissione ciascuna dal loro conteggio annuale grazie a questo processo e in futuro potrebbe permettere alle nazioni di continuare a emettere CO2 sostenendo al contempo di star raggiungendo gli obiettivi di Net Zero. La riduzione delle emissioni può essere contata in questo modo soltanto se vengono prese chiare azioni di rimboschimento e non includendo la naturale ricrescita delle foreste non correlata ad alcuna politica nazionale. Inoltre, una parte di questo assorbimento di carbonio non avviene neanche, o comunque non nella misura dichiarata dalle nazioni. La Malesia, ad esempio, è tra i top 25 maggiori emettitori di emissioni al mondo, rilasciando 422 milioni di tonnellate di gas nel 2016; ma siccome il paese sostiene che i suoi alberi assorbono grandi quantità di CO2, le sue emissioni riportate all’ONU sono soltanto di 81 milioni di tonnellate, meno di quelle del piccolo paese del Belgio.
Le foreste provvedono a regolare e fornire tutta quella serie di prodotti e servizi ecosistemici essenziali per le nostre società, inclusi:
- La produzione di legname, cibo e altri prodotti naturali;
- Funzioni ecologiche come il ciclo dei nutrienti, purificazione dell’acqua e dell’aria e il mantenimento degli habitat della fauna; Aumento della fertilità del terreno
- Barriere contro inondazioni e innalzamento del livello del mare (foreste di mangrovie)
- Funzioni sociali, culturali e spirituali
Il problema con la maggior parte di questi servizi ecosistemici risiede nella difficoltà nel misurarne il valore in termini monetari, il loro degradamento non viene perciò internalizzato nelle attività umane che lo causano, come il diboscamento o l’eccessivo sfruttamento dei terreni agricoli.
Un esempio vincente: La Grande Muraglia Verde
Uno dei più grandi progetti di riforestazione a livello globale è il Great Green Wall, uno sforzo multimiliardario condiviso da diversi paesi del Sahel africano con l’obiettivo di fermare l’avanzata del Sahara e la desertificazione in Africa centrale. Un muro di alberi che attraversa tutto il continente, dal Senegal a occidente al Djibouti a Oriente, per una lunghezza totale di 7000km. Il tentativo è quello di fermare il deterioramento della fertilità del terreno dovuta a fattori come il cambiamento climatico, la siccità e le attività umane. Sebbene soltanto il 4% del progetto sia stato completato e si siano incontrate numerose difficoltà, il progetto ha anche aiutato a riscoprire alcune pratiche agroforestali indigene che erano state abbandonate. La gestione del terreno e l’agricoltura tradizionale ricevono generalmente pochi fondi e protezione legale, ma sono proprio le aree coltivate dalle popolazioni indigene che tendono ad essere significativamente più produttive, resilienti e sostenibili.
In conclusione, la riforestazione può essere vista come una panacea per il cambiamento climatico, ma la realtà è che non lo è. Il rimboschimento è importante e deve essere perseguito per tutti quei motivi che abbiamo analizzato, ma da solo non può fermare il cambiamento climatico e di certo non può essere una scusa per smettere di utilizzare combustibili fossili. Non consideriamo dunque la riforestazione come una panacea di tutti i mali del clima perché non lo è. Gli obiettivi da raggiungere sono ancora lontani e implicano formule e controlli sistematici, come “la formalizzazione” in un perimetro normativo e procedurale condiviso della misurazione della CO2 assorbibile sul lungo periodo per evitare che in fumo finiscano anche le nostre possibilità di guarire l’ambiente