Ad oggi sono stati prodotti più di 8 miliardi di tonnellate di plastica e, ogni anno, ne finiscono nel mare 8 miliardi di chili. Questa plastica intrappola gli animali marini e i pesci che finiscono nei nostri piatti, compare nel sale che usiamo come condimento ed è stata persino trovata nel nostro corpo. Con il moltiplicarsi delle ricerche sugli effetti dell’uso eccessivo di plastica, i consumatori e i produttori sono alla ricerca di un’alternativa a questo materiale onnipresente. Una possibile alternativa che è emersa sono le bioplastiche.
A prima vista, il nome sembra promettente, con un prefisso che suggerisce un prodotto ecologico. Ma è la bioplastica davvero una panacea per i nostri problemi ambientali, in grado di ridurre il nostro senso di colpa nell’utilizzare un oggetto monouso che sembra essere fatto di plastica?
La risposta: è complicato. Secondo gli scienziati, i produttori e gli esperti ambientali i potenziali meriti della bioplastica dipendono da molti fattori.
Cosa sono le bioplastiche?
Per bioplastica si intende la plastica ottenuta da piante o altri materiali biologici anziché dal petrolio.
Può essere ricavata da acidi polilattici (PLA) presenti in piante come il mais e la canna da zucchero, o da poliidrossialcanoati (PHA) prodotti da microrganismi. Il PLA è comunemente utilizzato per gli imballaggi alimentari e il PHA per i dispositivi medici come suture e cerotti cardiovascolari.
Poiché il PLA proviene dagli stessi grandi impianti industriali che producono prodotti come l’etanolo, è la fonte più economica di bioplastica. È il tipo più comune e viene utilizzato anche nelle bottiglie di plastica, nelle posate e nei tessuti.
Piante, petrolio e lotta per la sicurezza alimentare
“L’argomento a favore delle plastiche bio-based è il valore intrinseco della riduzione dell’impronta di carbonio“, spiega l’ingegnere chimico Ramani Narayan della Michigan State University, che si occupa di ricerca sulle bioplastiche.
Circa l’otto per cento del petrolio mondiale viene utilizzato per produrre plastica. La riduzione di questo uso sarebbe uno dei principali vantaggi delle bioplastiche. Le bioplastiche aggiungono meno carbonio all’atmosfera quando si degradano rispetto alle plastiche tradizionali, perché essenzialmente restituiscono il carbonio che le piante hanno assorbito durante la crescita (invece di rilasciare quello che è stato intrappolato nel sottosuolo sotto forma di petrolio greggio).
Tuttavia, la storia non finisce qui. Uno studio del 2011 dell’Università di Pittsburgh ha rilevato significativi problemi ambientali legati alla coltivazione di piante per la produzione di bioplastiche. Tra questi, l’inquinamento da fertilizzanti e la sottrazione di terreni alla produzione alimentare.
L’utilizzo di un prodotto come il mais per produrre plastica anziché cibo è al centro di un dibattito su come dovrebbero essere distribuiti gli alimenti in un mondo in cui la scarsità di cibo è in aumento.
“L’altro aspetto interessante è che la biomassa vegetale è rinnovabile“, aggiunge Narayan. “Viene coltivata in tutto il mondo, mentre il petrolio si concentra in particolari regioni. Le bioplastiche sostengono l’economia rurale e agricola“.
Secondo l’ingegnere ambientale ed esploratrice del National Geographic Jenna Jambeck dell’Università della Georgia, le plastiche di origine vegetale presentano dei vantaggi, ma solo se si tiene conto di una serie di fattori.
“Dove vengono coltivate, quanta terra occupano, quanta acqua è necessaria“, dice, fornendo esempi di domande importanti.
Se le plastiche a base biologica siano migliori per l’ambiente rispetto a quelle a base di petrolio “è una questione importante che dipende da molti fattori”, afferma. In altre parole, per ora non c’è una risposta chiara.
Cosa ne sarà delle bioplastiche quando avremo finito di usarle?
A seconda del tipo di polimero utilizzato per produrla, la bioplastica scartata deve essere:
- Inviata in discarica;
- Riciclata, come molte (ma non tutte) le plastiche a base di petrolio;
- Inviata a un impianto di compostaggio industriale.
Il compostaggio industriale è necessario per riscaldare la bioplastica a una temperatura sufficientemente alta da permettere ai microbi di scomporla. Senza un calore intenso, le bioplastiche non si degradano da sole in tempi significativi, né in discarica né in una compostiera domestica. Se finiscono negli ecosistemi marini, si comporteranno come le plastiche a base di petrolio, scomponendosi in frammenti microscopici, durando per decenni e rappresentando un pericolo per la vita marina.
“Se il PLA [bioplastica] si disperde, non sarà biodegradabile nemmeno nell’oceano”, afferma Jambeck. “Non è poi così diverso dai polimeri industriali. Può essere compostato in impianti industriali, ma se la località non ne dispone, non fa alcuna differenza”.
Quindi dovremmo usare il PLA?
Gli ambientalisti sostengono che la grave mancanza di impianti di compostaggio industriale significa che le bioplastiche fanno poco per ridurre la quantità di plastica che arriva in mare.
Dune Ives è il direttore esecutivo di Lonely Whale, un’organizzazione ambientalista senza scopo di lucro che si occupa di soluzioni commerciali, soprattutto per quanto riguarda la plastica. All’inizio di quest’anno, il gruppo ha condotto una campagna chiamata “Strawless in Seattle” (senza cannucce a Seattle) per spingere a vietare le cannucce di plastica. Nell’ambito di questa iniziativa, Lonely Whale ha valutato la possibilità di offrire cannucce in bioplastica come alternativa. Secondo Ives, tra le aziende locali che disponevano di bidoni per il compostaggio, poche hanno riferito che i prodotti in bioplastica arrivavano nei luoghi interessati.
“Ci siamo subito resi conto che l’idea della plastica compostabile sembra interessante, soprattutto in un’area come Seattle, ma c’è l’elemento umano da considerare”, ha commentato.
Dune aggiunge che senza un’adeguata infrastruttura di compostaggio e senza un’educazione dei consumatori, i prodotti in bioplastica possono finire per essere un esempio di greenwashing, un’espressione coniata dagli ambientalisti che si riferisce ai casi in cui i consumatori sono ingannati sulla sostenibilità del prodotto.
“Il marketing ci fa sentire bene per quello che compriamo, ma la realtà è che non abbiamo ancora dei sistemi per trattare questi materiali“, spiega.
Il Biodegradable Products Institute (BPI) è un’organizzazione no-profit che sostiene i prodotti biodegradabili e le infrastrutture per la gestione dei rifiuti. Vedono le bioplastiche e il compostaggio industriale come possibilità non sfruttate.
“Il compostaggio è di natura locale”, afferma Rhodes Yepsen, direttore esecutivo della BPI. “Non ha senso inviare i rifiuti alimentari in un altro Paese. Imputridisce subito e si tratta per lo più di acqua. È pesante e sporco”. Yepsen sottolinea che il riciclaggio è spesso inefficiente, in quanto cattura meno di un quinto del materiale riciclabile prodotto a livello mondiale.
“Il 50% dei rifiuti che produciamo è costituito da rifiuti biodegradabili come cibo e carta”, spiega Narayan, che lavora anche come consulente scientifico per BPI. Ritiene che le discariche dovrebbero essere eliminate del tutto e sostituite da una raccolta dei rifiuti più robusta e completa.
“Le discariche sono tombe. Conserviamo i rifiuti. Non ha alcun senso”, dice.
La plastica ricavata dal petrolio o da piante come il mais è uno dei materiali più economici per oggetti come gli imballaggi, ma i piccoli produttori stanno sviluppando alternative più naturali, secondo i principi della bioeconomia. Nel Regno Unito, un negozio coltiva funghi per produrre mobili leggeri e, negli Stati Uniti, il Dipartimento dell’Agricoltura utilizza una pellicola di latte per creare imballaggi che mantengono freschi gli alimenti.
È un campo per investitori imprenditoriali. Non mancano incredibili opportunità per alternative che siano degradabili in mare e che non sovraccarichino il sistema di produzione alimentare o la terra.