Editoriale Rivista Rifiuti n. 280
Green new deal: il piano verde europeo della Presidente Ursula von der Leyen. Una formula che si pone come salvifica, con tagli alla CO usando tasse, finanza, dazi, chimica e foreste. Il documento “spiega come rendere l’Europa il primo continente neutrale dal punto di vista climatico entro il 2050, stimolando l’economia, migliorando la salute e la qualità della vita delle persone, prendendosi cura della natura e migliorando l’ambiente”.
Un libro dei sogni, tuttavia è vero che da qualche parte bisogna pur cominciare. Il piano costerà 260 miliardi di euro l’anno 2 perché ha dichiarato Von der Leyen “Dobbiamo rimettere d’accordo l’economia, il modo di produrre e di consumare e il nostro Pianeta”. Ma i negoziati non saranno semplici.
Il “green new deal” italiano, ha sogni più piccoli ma fa la sua parte e, con la legge di bilancio (160/2019), ha destinato 4,24 miliardi di euro per il periodo 2020-2023 ad un Fondo che avvia la riconversione verde dell’economia italiana. Alimentato con i proventi della vendita delle quote di emissione di anidride carbonica (CO ), il Fondo sarà usato dal Ministro dell’economia e delle finanze per sostenere, con garanzie a titolo oneroso o partecipazioni in capitale di rischio e/o debito, progetti economicamente sostenibili con precise finalità. Si aspettano i decreti attuativi.
Il 6 dicembre 1988 l’Assemblea generale dell’Onu approvava all’unanimità una risoluzione sul tema della tutela del clima. Da qui sono nati: la Convenzione quadro sui cambiamenti climatici del 1992; il Protocollo di Kyoto del 1997 e l’Accordo di Parigi del 2015. Un’attività frenetica dalla quale si attendevano risultati importanti.
E invece… nel 2018 la concentrazione atmosferica di CO ha superato 408 ppm, il 45% in più della concentrazione all’inizio della rivoluzione industriale (seconda metà del XVIII secolo) e il 31% in più rispetto a 60 anni fa. 2 2 Quindi, non si può più parlare di quelli che, nel 1972, il “Rapporto Meadows” individuava come i “limiti dello sviluppo”; occorre invece ragionare sullo “sviluppo dei limiti”, capovolgendo di 360 gradi i termini della questione. G. Ruffolo nel suo “Lo specchio del diavolo” lo fece per primo. Il limite, un concetto fondamentale del quale non sembrano essersi minimamente accorti i segnali pubblicitari di molti gestori telefonici che, straparlando di un malinteso concetto di infinito, creano generazioni colme di solitudine, convinte di essere il motore del mondo per il solo fatto di possedere uno smartphone. Moltitudini di persone dalla socialità incerta e incapace di trovare uno spazio dove pubblico e privato si (ri)connettano. Nell’antica Grecia, per far diventare la libertà individuale un impegno collettivo, c’era l’agorà. La visione collettiva della TV è stata gradualmente rimpiazzata dai cd. “social” che hanno amplificato il senso di estraneità, dove la catena delle partenze per avere nuove occasioni è, da tempo, spezzata dalla contemplazione attonita di uno schermo che contiene tutto ma che non educa. In questa periferia della ragione, la sostenibilità può essere il motore per riaccendere l’emozione, oggi annientata dal ritiro sociale e dalla introversione melanconica.
Le sfide poste dalla crisi ecologica sono immense e solo un rinnovato concetto di responsabilità può farcela, nel sogno di un altro quotidiano, in una nuova metafisica del divenire. Perché gli stanziamenti pubblici da soli non bastano a radicare la rinascita.
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