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Editorale – Giugno 2020

di Paola Ficco, “Avvocato - Giurista ambientale e Direttore della Rivista RIFIUTI

Data 10/06/2020
Tipo Editoriale
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Mentre l’Italia riceve una trasfusione di emergenza dalle polverizzate misure piovute dai Dl “Cura italia” e “Rilancio”, il Covid 19 non smette di mietere vittime e seminare incertezze. Lo slogan “andrà tutto bene” è tranquillizzante ma è ridicolo anche perché le prospettive a lungo termine restano oscure.
L’azione di contrasto si è spinta molto più in là di quanto si sarebbe mai pensato, eppure non basterà. Perché il pulviscolo assistenziale creato per fronteggiare la crisi economica derivata dalla pandemia non produce ricchezza, limitandosi a dare mance per sedare paura e rancore sociale.

Sarebbe stata l’occasione giusta, invece, per sbloccare investimenti e procedure bizantine, incentivare gli investimenti privati e dare, così, ossigeno a tutti. Si è preferito guardare il dito e non la luna. Del resto, dipende dalla visione che (non) si è capaci di avere del futuro.
Sui principi in Italia e a Bruxelles si vola altissimo e sulla loro concreta attuazione si rasenta la cecità. Così mentre l’Europa e la sua direttiva sui rifiuti impongono la responsabilità estesa del produttore di beni dai quali derivano rifiuti, diventa legittimo chiedersi dove saranno questi produttori/importatori e chi saranno i consumatori. In Italia, la desertificazione produttiva che si profila all’orizzonte e la contrazione del mercato interno sono sotto gli occhi di tutti: secondo la Cgia di Mestre, un’impresa artigiana su quattro è a rischio chiusura. Tra i comparti più colpiti c’è la manifattura.

Su Il sole 24 Ore on line del 2 aprile 2020, si legge che, secondo Confindustria “l’effetto Covid-19 affonda la produzione in marzo (−16,6) e nel primo trimestre (−5,4)”.
Si è poi aggiunto il dramma sicurezza sul lavoro perché con il Dl “Cura Italia” (18/2020) “i casi accertati di infezione da coronavirus in occasione di lavoro” vanno considerati infortunio sul lavoro. La norma adombra che dalla tutela Inail scaturisca la sussistenza (da dimostrare) della responsabilità penale del datore di lavoro. Nella Circolare del 15 maggio l’Inail nega che vi sia automatismo per la responsabilità del datore di lavoro purché abbia rispettato le disposizioni previste dai protocolli nazionali, sottoscritti dalle parti sociali, d’intesa con il Governo e fermo restando le indicazioni regionali. Quindi, il riconoscimento del contagio come infortunio sul lavoro non assume rilievo rispetto alla responsabilità penale. Del resto, il contagio è frutto di fattori di rischio non direttamente e pienamente controllabili dal datore di lavoro.

È anche vero però che, in ambito penale, vige il principio della presunzione di innocenza e dell’onere della prova a carico dell’accusa (e dell’eventuale parte civile costituita); tuttavia, i processi costano e in questa Italia dove tanti principi sono puntualmente calpestati, occorre un intervento normativo che faccia definitiva chiarezza, per evitare tante inutili, afflittive e allarmanti conseguenze, per una classe produttiva e un’economia nazionale già tanto prostrati.

La ridondanza di espressioni e l’ingombro volumetrico di quello che ormai è un vero e proprio corpus normativo con il quale si cerca di fronteggiare la pandemia e le sue terribili conseguenze nascondono una percezione onirica dei principi del reale. Si direbbe, quasi un orizzonte surrealista che, nella sua trance, non ha mancato di creare scompiglio nel mondo dei rifiuti con un restyling mal congegnato del deposito temporaneo. Quando il dato legislativo è fluido, il giurista non ha fatto uso del suo valore, perché il diritto è il risultato della composizione del conflitto. Mentre il dolore è il risultato di un equilibrio che si è rotto. Negli spezzati equilibri nazionali, il diritto si deve occupare di questo dolore, perché è con le parole che il diritto prende forma e la sapienza tecnica è nell’uso delle parole. Invece, le tante parole usate, non chiare e piene di rinvii ad altre norme, dissimulando il sogno e simulando la vigilanza attenta, restituiscono un risultato narcisista del contorto filo creativo di chi le ha scritte.

M. Twain, in “Finalmente Parigi”, del can can parigino ricorda “scarpine delicate e minute, e quindi un’esplosione furiosa finale, un tumulto, un frastuono e una baraonda incredibile e un generale e selvaggio fuggi fuggi”.


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