Quando nell’agenda politica e nelle sensibilità dei singoli e delle collettività, il rispetto dei criteri di sostenibilità ambientale inizia ad avere la stessa dignità del profitto economico, lì si avvia quel processo di innovazione tecnologica ormai noto con il nome di transizione ecologica che mostra già un orizzonte denso di nuove simmetrie e di suggestivi legami.
Da decenni si parla di un indistinto concetto di ambiente e di sostenibilità ambientale che rendano produzione energetica, produzione industriale e stile di vita delle persone meno dannosi per l’ambiente. Ma tutto sempre più formale che sostanziale perché la reale volontà di rendere questi elementi protagonisti del modello di sviluppo è stata blanda, salvo pulirsi la coscienza armando di Codice penale l’isteria (preventiva o revanchista) delle collettività locali.
Quando il diritto penale viene eretto a sostituto funzionale dell’etica pubblica e la repressione è l’arma contro l’inquinamento (non di rado più presunto che dimostrato), si rende evidente che l’Ordinamento ha capito poco o nulla perché non interviene all’origine del problema, ma agisce sulla fine, come se il processo educativo di un bambino iniziasse con gli schiaffoni e il severo cipiglio, anziché con l’esempio e la condivisione.
Arriva così la giustizia ambientale, un mezzo drastico e brutale di riduzione della complessità che disattiva un tipo di significato e ne attiva un altro. È così che la nuova narrazione crea il diritto penale che colpisce la scelta produttiva perché deviante e sbagliata a prescindere e, usando la grammatica tipica del processo, ne realizza l’asimmetria: quella del sospetto e della logica inquisitoria. La sfida della transizione ecologica, dunque, non è solo tecnologica ma è soprattutto ontologica perché deve scendere nelle pieghe profonde del senso e del sovrasenso della necessità di plasmare ulteriori complessità fornendo gli strumenti per non confondere più realtà e illusione.
Diversamente, la realtà produttiva continua a essere il racconto dell’esercizio di un diritto garantito dal diritto che viene sanzionato dal diritto; un paradosso che produce un non-diritto.
La violenza persecutoria che si abbatte su chi è indicato come (presunto) “inquinatore” non è mai raccontata; invece, gli effetti di questa violenza operano a tutto campo, focalizzandosi nel clamore mediatico e nella legittimità della procedura. Il fascino perverso e il successo della giustizia ambientale, forse, risiedono proprio qui. Il riorientamento dell’agenda politica verso la sostenibilità, tuttavia, ha due imperativi categorici: incremento dell’efficienza energetica e decarbonizzazione della relativa offerta. Per niente facili, né l’uno né l’altra.
Ma il Ministro per la transizione ecologica, Roberto Cingolani, ha riconosciuto un’altra priorità, propedeutica rispetto alle precedenti: quella che ha definito “transizione burocratica” (Il Sole 24 Ore del 10 marzo 2021); infatti vede “un’urgenza formidabile” nello snellimento e nella semplificazione di norme e regole “che ci consentono di operate in maniera efficace ed efficiente”.
Anche se non è una novità perché ritardi, inefficienze, scarsa propensione politica a prendere di petto il problema hanno creato negli anni incredibili incrostazioni nella macchina pubblica. Un sistema che si alimenta della sua complessità, iperburocratizzato e ipercentrista che enfatizza le procedure e perde di vista il raggiungimento degli obiettivi.
Le inefficienze e la scarsa qualità dei servizi erogati dalla P.a. impattano sulla crescita nazionale con una perdita di circa 70 miliardi di Pil e, nel confronto internazionale, su 36 Paesi Ocse, fanno scivolare l’Italia al terzultimo posto passando dalla 20esima alla 33esima posizione (“La Repubblica”, edizione digitale, 4 luglio 2020).
Non è una novità si diceva, tuttavia, fa bene il Ministro Cingolani a ricordarlo. Deve diventare un mantra perché, in una società che si professa organizzata, l’efficienza è la premessa di ogni cosa e la sua assenza rischia di ridurre gli sforzi nella direzione della transizione ecologica.
La risposta che si saprà fornire a questo nuovo Leviatano orienterà il domani e i giudizi sul presente e sul passato, guidandoci forse nella costruzione di una morale collettiva e privata che, a sua volta, diventerà premessa di ogni possibile narrazione di domani.
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