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La fuga dei cervelli dall’Italia è un rischio serissimo (anche) per la gestione della transizione ecologica

di Paola Ficco, “Avvocato - Giurista ambientale e Direttore della Rivista RIFIUTI

Data 15/07/2021
Tipo Editoriale
rivista rifiuti

Negli ultimi 8 anni la fuga dei giovani laureati dall’Italia è aumentata del 41,8%. È questo il dato restituito dalla Corte dei Conti con un comunicato del 26 maggio 2021. È un dato drammatico che deve allarmare tutti. E invece, nel comune sentire, ci penserà qualcun altro anche perché le vacanze sono prossime e adesso va bene così. Un “adesso” che diventa “sempre”.
Anche se in Italia la quota dei giovani laureati è aumentata negli ultimi 10 anni, resta in ogni caso inferiore rispetto agli altri Paesi Ocse. Le ragioni sono indicate dalla Corte dei Conti nelle persistenti difficoltà di entrata nel mercato del lavoro perché in Italia il possesso della laurea non offre (come invece avviene in area Ocse) maggiori possibilità di impiego rispetto a quelle di chi ha un livello di istruzione inferiore. Quindi, le limitate prospettive occupazionali, con adeguata remunerazione, spingono sempre più laureati a lasciare il Paese (+41,8% rispetto al 2013). È questo il terribile dato che emerge dal Referto sul sistema universitario 2021 approvato dalle Sezioni riunite della Corte dei conti con delibera 8/SSRRCO/REF/21 che approfondisce finanziamento, composizione, modalità di erogazione della didattica, offerta formativa e ranking delle università italiane (98 atenei di cui 67 statali, che comprendono 3 Scuole superiori e 3 Istituti di alta formazione, nonché 31 Università non statali, di cui 11 telematiche), ricordando che l’Anvur (Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e della ricerca) ha fatto emergere giudizi di qualità elevati prevalentemente per le università del Nord rispetto a quelle del Sud e criticità per le telematiche.
In altri termini, per guadagnare come guadagna un diplomato non vale la pena laurearsi, oppure, se si fa il sacrificio di uno studio pesante e prolungato, tanto vale lasciare l’Italia dopo la laurea.
Il dato prelude alla inevitabile desertificazione culturale del Paese, dove la “peggiocrazia” la farà da padrone nella disfatta politica, economica e morale che è, comunque da ormai un po’ di tempo, sotto gli occhi di tutti. Prove tecniche di disfacimento e vaporizzazione di un paese straordinario. Dove il collaboratore o il manager non è quello più bravo ma solo quello più fedele, fedele perché vale poco e non ha alternative, e copre il gioco – più o meno discutibile – del suo “dominus”.
Si chiama clientelismo, una piaga nazionale che, insieme all’economia sommersa, ha inferto ferite, quasi non più rimediabili, al tessuto connettivo nazionale. Anche se tutti parlano di “meritocrazia” ancora, troppo spesso, diventa manager chi ha buone entrature; in questa “logica del compare” o “del raccomandato” è normale che i giovani laureati fuggano a gambe levate. Il Referto della Corte dei Conti evidenzia anche criticità nell’ambito della ricerca scientifica nel settore università; infatti, si legge che “nel periodo 2016-2019 l’investimento pubblico nella ricerca appare ancora sotto la media europea”.
L’unica cosa che non manca è la burocrazia che attanaglia programmazione, finanziamento ed esecuzione delle ricerche che si caratterizzano “per la complessità delle procedure seguite, la duplicazione di organismi di supporto, nonché per una non sufficiente chiarezza sui criteri di nomina dei rappresentanti accademici in seno ai suddetti organismi, tenuto conto della garanzia costituzionale di autonomia e indipendenza di cui all’articolo 33 della Costituzione”. Non solo, la notevole percentuale del lavoro precario nel settore della ricerca determina la dispersione delle professionalità che lì si sono formate.
Insomma, le Università ancora per un po’ possono reggere, ma fuori dalle porte degli atenei il Paese non c’è. Mentre carte e procedure assediano con spire asfissianti ogni tentativo di potercela fare.
Che il sistema Paese valga ormai poco grazie al suo capitale umano che non c’è (quasi) più è dimostrato dall’enormità della burocrazia: lo strumento attraverso il quale simula la complessità del pensiero per dissimulare la sua pochezza.

Servono condizioni nuove per riattrarre le intelligenze: dalla giustizia al fisco, dalle privatizzazioni alle regole chiare sulla concorrenza. Servono meccanismi per arginare l’emorragia di saperi: dalla scuola al mondo del lavoro alla politica e università dove prevalgano centri di eccellenza con atenei di livello superiore per capacità da valorizzare.
Anche la gestione dei miliardi del Pnrr, la transizione ecologica e la trasformazione in atto avranno bisogno di intelligenze e non di “compari”. Non servono mancette o qualche sgravio fiscale, non serve fare solo la raccolta differenziata, serve un Paese che, come l’Isola, oggi non c’è.

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