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Editoriale – Ottobre 2020

di Paola Ficco, “Avvocato - Giurista ambientale e Direttore della Rivista RIFIUTI

Data 10/10/2020
Tipo Editoriale
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Economia circolare: un mantra ripetuto fino all’ossessione, quasi come se, invocandolo in modo collettivo, tutto si dovesse realizzare. Ma non sarà così. L’impegno che questa epoca di transizione richiede è supremo, fatto di intelligenze e capacità prospettiche di vario genere e titolo. Ne servono talmente tante che il conto finale è impreciso e impressionante.

Ma per poter contare su quel che serve non possiamo far finta di nulla dinanzi a un dato allarmante: tra il 2009 e il 2018, 320mila giovani tra i 20 e 34 anni hanno lasciato l’Italia. Ne sono tornati solo 85mila, con un saldo netto di 235.000 espatriati. Questa l’elaborazione su dati Eurostat dalla Fondazione Leone Moressa. Se fossero rimasti in Italia, i nostri giovani avrebbero potuto realizzare 1 punto di Pil. Un’emergenza nazionale della quale non si parla mai. Un’emorragia che iscrive una ipoteca drammatica sul futuro.

Nell’Europa dei 28, l’Italia è al penultimo posto per numero di laureati (prima della Romania e dopo il Belgio). Il calcolo, fatto su una popolazione tra i 30 e 34 anni, attesta l’Italia al 27,6%. Inoltre, il 13,5% dei nostri studenti abbandona la scuola. Terribile. Però c’è un podio che l’Italia conquista: è prima in Europa per numero di Neet (i giovani tra i 25 e i 29 anni che né studiano né lavorano): sono il 29,7%. Superiamo Grecia (27,3), Romania (21,1) e Bulgaria (20,8).

Quindi la domanda è: dove le troviamo tutte quelle intelligenze necessarie alla realizzazione dell’economia circolare? Non servono solo braccia, servono cervelli per giunta specializzati. Non li abbiamo. Che non si faccia granché per arginare tutto questo è folle. Ricordare che “La follia, mio signore, come il sole se ne va passeggiando per il mondo, e non c’è luogo dove non risplenda” (Shakespeare, La dodicesima notte  ) non è consolatorio.

Ed è su questa piattaforma spopolata di capacità e competenze che atterra il recepimento delle direttive sull’economia circolare. Quattro decreti legislativi, dei quali quello sui rifiuti e gli imballaggi e quello sulle discariche ridisegnano scenari non facili. Dove campeggia, completamente oscurato, il sistema della responsabilità estesa del produttore dei beni dai quali si originano i rifiuti (Epr) e brillano registri e formulari con la solita noiosa litania di chi li deve fare e chi no, di come li deve fare o non fare. Nel primo caso si ridisegnano gli scenari e i destini dell’industria nazionale e dell’importazione, dove nella sequenza sistemica, ogni azione deve diventare esito della precedente e presupposto di quella successiva, senza mai interrompersi, perché è nella interruzione del ciclo che c’è lo spreco.

Su registri e formulari, invece, è come se si vidimasse o meno un biglietto del tram, giusto con qualche diverso accento di colore.

Ma nella percezione capovolta delle cose che, come una malattia infettiva, invade questo nostro tempo, l’Epr è un incompreso mistero, avvertito con la stessa importanza che si dà al peso di un respiro. Nel secondo, abilissimi meccanismi narrativi sono declinati per simulare accigliata conoscenza sul nuovo che avanza: lo stesso da venti anni. Sic!

L’economia circolare non è un pretesto narrativo per parlare di tutela ambientale, va oltre: costringe a interrogarci su dove ci troviamo e perché, con la prospettiva di un “altrove”. Tuttavia, è nei confini di questo particolare/universale che si dibatte, ancora e senza sosta, sull’annoso termine “rifiuto sì/rifiuto no”: un termine talmente usurato e inflazionato da costituire un problema interpretativo al quale si riconnettono le opposte visioni del mondo. Le direttive sull’economia circolare avrebbero potuto approfittare della ghiotta occasione per uscire da questa pericolosa oscillazione che risale al 1975 (direttiva 75/442/Cee). E invece no, tutto uguale per 43 anni. Quasi un’ironia svagata ma troppa e, allora, quasi sospetta che si presta a essere guardata in controluce. Ed è quella osservazione in filigrana che lascia filtrare un’angoscia sottile e tutta europea: quella di non farcela senza la stellare guerra delle parole.

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