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Tessile, il costo ambientale di distruggere il reso e l’invenduto

di Circularity

Data 07/05/2024
Tipo News

Il 23 aprile 2024 il Parlamento Europeo ha adottato in via definitiva il Regolamento per la progettazione ecocompatibile dei prodotti sostenibili (ESPR), meglio conosciuto come Regolamento Ecodesign. Oltre a rendere i prodotti più durevoli e affidabili, più facili da riutilizzare, aggiornare, riparare e riciclare, le nuove norme del regolamento impongono un divieto alla distruzione di prodotti tessili resi e invenduti. Il testo adottato prevede un’esenzione di 4 anni per le medie imprese e una deroga generale per le piccole e microimprese.

L’impatto climatico dei vestiti resi e invenduti

La pratica di distruggere gli indumenti resi e invenduti è ormai in atto nel settore della moda almeno dagli anni ’80. Secondo i dati (probabilmente sottostimati) dell’Agenzia per la protezione ambientale europea (EEA), nel 2020 tra il 4 e il 9% di tutti i prodotti tessili immessi sul mercato in Europa sono stati distrutti prima che qualcuno li abbia mai utilizzati. Questo equivale a un volume che si aggira tra le 264.000 e le 594.000 tonnellate di indumenti e scarpe. 

Secondo il report della EEA The destruction of returned and unsold textiles in Europe’s circular economy, la distruzione tramite incenerimento non rilascia solo anidride carbonica, ma anche altri inquinanti atmosferici, a seconda di quanto sia tecnicamente avanzato l’incenerimento. I tessili invenduti causano notevoli impatti sull’ambiente in diverse fasi del loro ciclo vita: dal consumo di risorse per realizzarli alla produzione, dal trasporto al fine vita.

Inoltre si annovera il consumo di energia legato allo stoccaggio e il trasporto aggiuntivo per i prodotti tessili resi.

Nonostante la carenza di dati in letteratura, l’agenzia ha tentato di calcolare gli impatti climatici tenendo conto delle emissioni di gas a effetto serra derivate sia dalla produzione di fibre che dalla distruzione, tenendo fuori però le fasi del processo produttivo come la filatura, tessitura o maglieria, tintura, confezionamento e finitura. Le stime meno ottimistiche ci raccontano che la distruzione è complessivamente responsabile di 5,6 milioni di tonnellate di CO2 equivalente. Un dato paragonabile alle emissioni generate da poco più di un milione di auto a benzina in circolazione per un anno o leggermente inferiore alle emissioni nette della Svezia nel 2021. 

Tessuti acquistati online e restituiti sono un problema

Sono principalmente due le situazioni che portano alla distruzione dei prodotti tessili: il tasso di resi, che si riferisce al numero di articoli acquistati che vengono restituiti per diverse ragioni; e la percentuale di invenduto, ovvero quando un maglione o una scarpa non trovano mercato, neanche nel mercato second hand. 

Il tasso di restituzione dei prodotti venduti online è fino a tre volte superiore a quello dei prodotti venduti nei negozi fisici, si legge nel report dell’Agenzia ambientale europea. In Europa è acquistato online l’11% del tessile abbigliamento, con un tasso medio direstituzione stimato attorno al 20%: un capo su cinque quindi viene restituito. Per le calzature siamo attorno al 30%: le scarpe e gli stivali invernali sono la categoria più coinvolta. Ma che fine fanno poi questi prodotti che rispediamo al mittente? “Si stima che il 22-43%, ovvero in media un terzo di tutti i capi di abbigliamento restituiti acquistati online, finisca per essere distrutto”.

Che succede ai vestiti invenduti?

La categoria del prodotto invenduto tiene insieme diversi percorsi, e anche in questo caso le informazioni disponibili sul volume sono piuttosto scarse. I prodotti invenduti possono essere overstock (beni che vengono prodotti ma non sono mai stati venduti), prodotti obsoleti (prodotti per i quali non c’è più domanda) o prodotti danneggiati o richiamati dal produttore a causa di problemi di qualità. L’eccesso di scorte e i prodotti obsoleti sono il risultato di uno squilibrio tra la produzione e la domanda, un disallineamento che può essere dovuto a difficoltà di previsione, a dinamiche di mercato o a una strategia aziendale consapevole. 

La strategia di vendita dei capi di abbigliamento è dettata da una serie di motivazioni, sia climatiche che di mero profitto. In primis il cambio stagione influenza notevolmente la domanda: una primavera anticipata per esempio scoraggia l’acquisto di un cappotto. Un altro elemento che esacerba il disallineamento tra produzione e domanda è la rapida evoluzione della moda coi numerosi nuovi modelli immessi sul mercato nel corso dell’anno. Si tratta di fast fashion, ovvero un modello di business che si basa su una proposta variegata e ricchissima, costantemente in evoluzione, da dare in pasto ai consumatori.

Un altro elemento da tenere presente quando si parla di invenduto è l’eccesso di prodotti in magazzino. I brand, soprattutto quelli fast fashion, preferiscono l’overstock per ridurre i tempi di consegna ed evitare il rischio di non essere in grado di soddisfare la domanda e generare maggiori profitti. Secondo la logica del sistema, dunque, meglio sprecare prodotti piuttosto che lasciare a mani vuote i clienti. 

In gioco entrano anche fattori geoeconomici: la maggior parte della produzione di abbigliamento ad alta intensità di manodopera avviene nei Paesi a più basso reddito, il cosiddetto Sud globale, soprattutto in Asia, dove prevalgono i bassi salari, rendendo più vantaggioso produrre troppo piuttosto che perdere potenziali vendite.

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